PROGETTI: LE RAGIONI DI UN NO
di Graziano Magnifico (Unicobas l'AltrascuolA Napoli)

La scuola si è spesso nutrita di parole-feticcio, quasi si dovesse dimostrare di compiere il proprio lavoro attraverso l’uso di esse, un uso ridondante, abnorme e, spesso, scriteriato.

Negli anni ’80 era in auge la parola-feticcio “programmazione”. Ricordate i dirigenti scolastici fanatici della scansione bimestrale, che ritiravano i registri per accertarsi che avessimo svolto il nostro compito,registri che nessuno, al di sopra del dirigente scolastico, ha mai degnato di uno sguardo? Quasi come se fosse più importante scrivere ciò che si intendeva fare, piuttosto che il lavoro che, concretamente, veniva svolto in classe.

Da un paio di decenni a questa parte questa parola ha lasciato il posto a un’altra, ben più subdola e foriera di nefaste conseguenze proprio per l’uso improprio che ne è stato fatto,una parola in grado di provocare conati di vomito agli insegnanti più sensibili al solo udirla: la parola “progetto”.

Credo che, se stilassimo una classifica delle parole che nel corso degli anni hanno subito maggiori variazioni di significato, al punto da perdere quello originario, la parola “progetto” risulterebbe ai primi posti.

Progettare viene dal latino “proiectare”, che ha anche significato di “esporre”ed è a sua volta forma intensificata di “proicere”: "gettare avanti”, il che sottintende appunto una mente “proiettata” (la radice è la stessa) in avanti e quindi si presume che, alla base, vi sia un’idea creatrice da parte di chi progetta.

Da tutto ciò consegue che, se c’è un luogo dove questa parola viene usata a sproposito, questo luogo è proprio la scuola. Mi dite voi come posso parlare di progetto quando per dieci anni di seguito,svolgo la stessa attività, inserita ormai nella programmazione curricolare, attività che mi è stata proposta da un professionista esterno, assunto con contratto, il quale a sua volta propone la stessa attività a tutte le scuole e non solo a queste? In tutto ciò dove sta l’idea creatrice dell’insegnante? Ma tant’è! La parola, comunque, funziona; e se funziona, la usiamo.

Parlare di progetti fa “immagine”e più questi sono, più il cosiddetto piano dell’ “offerta formativa” appare ricco e vario. Se si fanno così tanti progetti,quella deve essere proprio una bella scuola! Ed ecco così ridefinita (per l’ennesima volta) la nostra funzione: Paola Mastrocola dice che il nostro è il “ mestiere che non c’è più”; pare proprio che a dire "faccio l’insegnante” non si dica più nulla. Siamo a seconda delle circostanze, "assistenti, psicologi, scribacchini, progettisti" (per conto terzi), ma sempre meno insegnanti.

Pare ormai che saper insegnare bene l’italiano o la matematica non sia più una nota di merito; saper comunicare coi ragazzi,saperli motivare allo studio non sono più requisiti così fondamentali.

Vuoi mettere uno che si limita a fare questo, di fronte a un altro che ti piazza, nello stesso quadrimestre, un laboratorio di teatro,uno di ceramica, una ricerca storica sul quartiere o sulla città e via progettando? Salvo poi dire (nei corridoi, mi raccomando, mai nei collegi docenti) che è indietro col programma, che le ore non bastano, che ci sono troppe interruzioni. Eh sì, perché proprio qui casca l’asino:il progetto si fa, ma non viene vissuto come una integrazione della propria attività, bensì come “altro” rispetto al programma. Questo proprio perché non nasce quasi mai,come invece dovrebbe, da una nostra idea, legata a ciò che in quel momento abbiamo deciso di insegnare.

Personalmente, la mia stima e la mia solidarietà vanno a quei colleghi (spero che ce ne siano) che da anni riescono a non aderire ad alcun progetto, limitandosi a fare bene il proprio lavoro in classe. Io stesso ho provato a defilarmi, ma ci sono riuscito solo in parte.

Sappiano questi colleghi che non verranno portati in palmo di mano dalle dirigenze, ma si dovranno accontentare dei risultati da parte degli alunni e, quando va bene, di un “grazie” da parte delle famiglie. Se poi i loro alunni sapranno scrivere meglio di altri o leggeranno il doppio degli altri,ma saranno comunque in minoranza,possiamo sempre consolarci,pensando che tutte queste cose non servono a trovare lavoro o a fare soldi, come sempre più spesso si sente dire nelle interviste agli studenti universitari. E allora che vogliamo ancora, perché continuiamo a rompere? Noi siamo vecchi, obsoleti, aggrappati al mestiere di insegnante come a una scialuppa di salvataggio, non in grado di capire le esigenze del mercato.

E qui conviene chiudere il cerchio, perché siamo ormai arrivati al fatidico "istruzione come merce".

Chi è ancora convinto di lavorare per la persona che istruiamo e non per il mercato, alzi la mano e, pochi o tanti che siamo, proviamo a rifondare questa scuola, partendo da un presupposto molto semplice: quando qualcosa non ci piace, occorre saper dire di no.