MOZIONE ESECUTIVO UNICOBAS

L'ANALISI DEL VOTO

I risultati delle elezioni politiche dello scorso aprile hanno determinato una profonda modificazione degli scenari politici, sociali ed economici in Italia.

Se la vittoria della destra era facilmente pronosticabile, le dimensioni della stessa ci danno il diritto di parlare di una vera e propria catastrofe sociale, culturale, esistenziale i cui effetti stiamo iniziando a conoscere proprio in questi giorni.

Se la sconfitta della "sinistra" era prevedibile, si può definire un vero e proprio tsunami quello che ha investito la cosiddetta sinistra radicale, cancellata completamente dal Parlamento.

Una sinistra punita nella versione "democratica"–blairiana, perché ha accettato, nei due anni di governo, tutto quello che Confindustria e Banca Europea le hanno imposto, non volendo realizzare neppure un punto di quelli contenuti nel famoso programma di oltre 280 pagine elaborato nel 2006.

Ma altrettanto nella versione radicale, perché inevitabilmente diventata "casta" e perché incapace a rappresentare i movimenti reali se non in maniera demagogica, dogmatica e strumentale.

Possiamo affermare che con le elezioni 2008 una storia si è definitivamente chiusa, quella del marxismo politico italiano. La prima cosa che emerge è il crollo delle dighe endogene: il mito operaio non tiene più. Ma anche questa è cosa già vista. Coloro che s'interrogano stupiti sulla trasmigrazione di un quinto dell'elettorato "comunista" verso la Lega, dimenticano quanto già successo da tempo, ad esempio in Francia, con interi quartieri proletari passati dal PCF a Le Pen sotto l'impatto della guerra fra poveri e delle contraddizioni (sicurezza) innescate dallo sfruttamento selvaggio dei fenomeni migratori.

Per la sinistra nostrana è un evento che scuote dalle fondamenta certezze date per scontate da più d'ottant'anni: chi dimentica la sicumera del vecchio PCI, il cui ultimo militante era "per statuto" sempre pronto a distribuire sprezzanti lezioni di sagacia politica? Come possono capacitarsi, ora, che non sono neanche più capaci di guadagnare un seggio alla Camera? Anche perché è ormai chiaro a tutti che la debácle non ha origine solo nel "tradimento" della "svolta a destra" del PD, nello schiacciamento, nella chiamata al "voto utile" contro il faccendiere di Arcore, bensì in qualcosa di ancor meno accettabile e metabolizzabile per quel che resta dell'apparato comunista. Fuor di contingenza, si tratta ormai dell'esaurimento totale della ragion d'essere della scuola politica marxista nella sua interezza (fatte salve le residue ragioni dell'analisi economica). Un problema non più risolvibile con edulcorazioni, ingegnerie o con il semplice richiamo all'identità o alla pura proposta (ri)organizzativa. Se è vero che l'assenza dei simboli tradizionali dal logo dell'Arcobaleno non ha "aiutato" in visibilità, è però preminente un malessere di fondo, non recuperabile con l'ennesima ("nuova") costituente comunista, ridotta ormai a mero richiamo della foresta per gli ultimi branchi (molto sparsi) di quel che era una volta la specie dominante a sinistra. Gli schemi e l'immagine sono sempre più desueti ed impresentabili: il fine che giustifica i mezzi, la dittatura di partito e del (sul) proletariato (in funzione di capitalismo di stato), mera riproposizione acritica di categorie ultradigerite dalla storia, come l'operaiolatria. I nuovi gruppi dirigenti sono invecchiati in fretta e la senilità impedisce loro di vedere oltre le usuali dietrologie, oltre la logica dell'accerchiamento e del complotto. Non ci sono solo la "americanizzazione" dell'elettorato, gli effetti perversi di una certa "globalizzazione" (delocalizzazione e mutamento della figura stessa del produttore) o la "perfidia" della CIA: è il senso comune a non accettare più le vecchie ricette.

Stiamo dunque parlando della "svolta elettorale" più significativa, quanto, per ovvi motivi, la meno analizzata dai politologi dopo queste elezioni: "travasi" a parte, dei due milioni ed ottocentomila voti rossi che mancano all'appello e fatta la tara di quel poco che hanno raccolto le due mini-scissioni del PRC (comunque determinanti nella sparizione dei seggi), buona parte sono finiti nell'astensionismo. Un astensionismo che continua a crescere, concentrandosi però questa volta (com'era inevitabile dopo la disillusione totale del governo Prodi), soprattutto a sinistra.

Il rischio di tutto ciò – oltre ai danni irreparabili che il "popolo delle libertà" produrrà inevitabilmente (ma che sono in linea con quanto già visto con il "centro-sinistra" ed il pensiero unico con in più un'azione pervicace contro lo Statuto dei Lavoratori, le libertà e la laicità) – è l'assenza di analisi, e quindi l'assenza di un nuovo necessario protagonismo (quello della sinistra libertaria). E' evidente: l'astensionismo in sé non serve se non ci si lavora. Mai come oggi s'è data (dunque) la necessità di "ragionare di politica". Occorre ragionare di sindacalismo libertario, soprattutto in una situazione nella quale i sindacati genericamente "alternativi" restano privi di padrini politici o vedono almeno incrinarsi il legame con partiti e partitini che hanno preteso sinora di utilizzarli come cinghia di trasmissione e/o gruppo di pressione su "mamma" CGIL a trazione PD (preferita perché prodiga di distacchi dal lavoro e favori personali), secondo la vecchia logica comunista che ha sempre preteso la subordinazione del sindacato al "partito-guida" di turno. Costruire una vera autonomia del mondo del lavoro è l'ultima chance che hanno i ceti subalterni (del lavoro, del precariato e del non-lavoro) per ritornare ad esprimere forme di protagonismo. Il sindacalismo libertario (se dichiarato come tale) con la sua propria autonomia (da ogni stereotipo ed ideologismo di "partito"), assume quindi un ruolo strategico nell'organizzazione del conflitto.

La radicalità non è dunque elemento meramente formale, bensì questione di sostanza e non può prescindere dalla volontà (chiaramente espressa e comprensibile) di farsi intendere e capire, nell'auspicato (e finalmente salutare) sacrificio dell'autocompiacimento (autoreferenziale ed elitario) del ghetto ideologico e/o impolitico. E' il coraggio di proporre elementi nuovi e sperimentali, elementi non graditi dagli schemi di qualunque ortodossia. E' necessario unire protesta e proposta, promuovere un agire condiviso e plurale, capace di conquistare spazi, dosare e calibrare l'azione perché sia condivisa e condivisibile: non per "adattamento", ma per preparare elementi più forti e decisivi di cambiamento. La radicalità non è nella rottura estemporanea, nella marginalità, nell'appartenenza ad una specie "altra" serrata in un recinto (foss'anche quello dei Cobas, "movimento-partito" ma non sindacato autogestionario). Sta nella determinazione (e quindi nella preparazione) di un cambiamento qualitativamente alto (etico), problematico, attualista, senza desuete nostalgie dirigistiche o dittatoriali, ragionante e partecipato.

Parallelamente è evidente anche il fallimento del sistema neo-liberista, responsabile oggi di una diseguaglianza crescente, di fondamentalismi e della rapina delle risorse da parte delle multinazionali (non solo americane, giapponesi ed europee... ma anche cinesi) nel Terzo Mondo.

Di fronte a questi scenari, le ragioni della lotta per il cambiamento restano tutte.

La ricetta dell'adeguarsi, dell'accettazione della ineluttabilità del mercato e del capitalismo, propagandata dalla sinistra del compromesso (Partito Democratico), accettata dai partitini comunisti "di lotta e di governo" (che hanno sempre proposto se stessi come elemento istituzionale di mera - e deleteria - mediazione del conflitto), assecondata in maniera strategica dai sindacati CGIL,CISL,UIL, oltre ad aver portato alla sconfitta le genuine istanze di libertà, eguaglianza, solidarietà e democrazia espresse dai giovani, dai lavoratori (anche immigrati), dai precari, hanno di fatto attuato (con l'abolizione della scala mobile del '92, la contrattazione nazionale vincolata all'inflazione programmata, richieste salariali sempre più al ribasso e legate alla produttività) una redistribuzione della ricchezza tale da determinare, in 25 anni, il passaggio di circa l'8% del PIL italiano dalle mani dei lavoratori a quelle dei padroni, pari a 7.000 euro medi in meno in busta paga per i circa 17 milioni di  lavoratori dipendenti.

IL NUOVO GOVERNO BERLUSCONI

Berlusconi è tornato al governo del paese, anche se per la verità in questi due ultimi anni sembrava non averlo mai lasciato, e si appresta a portare, definitivamente, a compimento un percorso politico solo momentaneamente interrotto.

Dietro alla nuova immagine di facciata, più equilibrata e rassicurante rispetto ai precedenti passaggi a palazzo Chigi, l'attuale capo del governo inizia a mostrare i veri intendimenti portati avanti dalla sua coalizione: un pericoloso mix di proposte demagogiche e politica autoritaria.

Si spiega così, ad esempio, l'abolizione dell'ICI sulla prima casa, che per il semplice fatto di riguardare l'80 per cento degli italiani dovrebbe mettere in guardia gli stessi beneficiari sulla necessità di pagare in altre forme quello che è presentato, oggi, come un "gentile regalo" da parte del nuovo esecutivo.

Lo stesso discorso vale per un altro provvedimento, la detassazione degli straordinari che, nonostante sembri mettere tutti d'accordo, ha evidenti conseguenze negative, innanzitutto in termini di sicurezza. E' svantaggioso per i lavoratori più deboli, come le donne e gli anziani che, per diversi motivi, fanno meno straordinari o i precari che avranno, evidentemente, più difficoltà a trovare un lavoro. A guadagnarci saranno invece le imprese, che riusciranno per questa via a ottenere un abbassamento del costo del lavoro e una maggiore flessibilità di utilizzo della manodopera.

La svolta autoritaria è chiaramente riscontrabile nel cosiddetto "pacchetto sicurezza" una nuova, ancor più feroce stretta repressiva nei confronti degli immigrati extracomunitari e dei cittadini europei considerati "indesiderabili".

Con questo provvedimento vengono affidati a sindaci e prefetti poteri che incidono sulla libertà personale e sul diritto di soggiorno delle persone, viene introdotto il reato d'immigrazione clandestina, così viene ad essere sanzionata una semplice condizione personale, cioè l´essere straniero.

Un pacchetto che non sembra fatto per colpire le vere illegalità, chi sfrutta il lavoro nero e il caporalato, le centrali del commercio abusivo, dell'accattonaggio, della prostituzione, quanto per colpire persone considerate pericolose "a prescindere", quasi tutte colpevoli solo di fuggire per il mondo alla ricerca di una sopravvivenza dignitosa.

Anche per quanto riguarda l'emergenza rifiuti di Napoli si manifesta una politica autoritaria e decisionista, con l'accelerata sugli inceneritori, ancora inutilmente chiamati termovalorizzatori, la volontà di disarmare la magistratura che già molte volte è intervenuta nella cattiva, e spesso illegale, gestione dei rifiuti campani e soprattutto una pericolosa militarizzazione del territorio, in funzione repressiva e non solo.

La proposta di nuove regole d'ingaggio per le truppe italiane, presenti in Afghanistan (in quella che è ancora chiamata eufemisticamente "missione di pace"), rientra in questa svolta autoritaria imboccata dall'Italia, così come le idee e le intenzioni espresse dal nuovo governo in campo energetico. Non solo viene riproposto il vecchio modello nucleare, una scelta di ritorno al passato che è e rimane un azzardo costoso, ma non si mette neanche in discussione l'altrettanto assurda scelta delle centrali a carbone e di contro si abbandona qualunque tipo di sviluppo sostenibile e alternativo.

E come non pensare che l'aria in Italia stia diventando sempre più pesante quando il capo del governo minaccia di galera ("non sarà tollerata l'opposizione di gruppi minoritari organizzati") non solo gli immigrati clandestini, ma gli ampi strati sociali degli sfruttati e dei dissidenti che si oppongono a lui. Quando il presidente della Camera Gianfranco Fini giudica delitto più grave bruciare una bandiera israeliana durante una manifestazione della cosiddetta sinistra antagonista torinese piuttosto che l'assassinio di un giovane dall'aspetto alternativo a Verona ad opera di un gruppo di neofascisti, oppure mentre mostra insofferenza per le regole di quella democrazia a cui si "onora" di appartenere (all'On. Di Pietro che gli chiede un intervento per placare gli animi nell'emiciclo della Camera, risponde "Dipende da ciò che si dice"). Quando il neo sindaco di Roma usa le solite parole omofobiche nei confronti del Gay Pride, poi inciampa nella glorificazione del fascismo, accreditandogli anche la modernizzazione del paese. Quando si legittimano, nei fatti, quelle posizioni forcaiole e xenofobe che poi si concretizzano, sempre più spesso, nelle ronde di "giustizieri fai da te", nelle spedizioni punitive, nelle aggressioni a persone, sedi e luoghi d'incontro di chiunque sia percepito come diverso solo per i capelli lunghi, il colore della pelle, le scelte sessuali o perché semplicemente baraccato.

Per concludere tutto ciò avviene nel solito scenario anomalo in cui Berlusconi, Presidente del Consiglio e leader assoluto del partito di maggioranza, è l'unico privato ad essere proprietario di ben 3 reti televisive nazionali e manovra il potere legislativo ed esecutivo in modo da impedire ad altri operatori (vedi vicenda Europa 7) di usufruire delle frequenze televisive nazionali che spetterebbero loro di diritto. Una situazione evidentemente preoccupante per un paese democratico visto l'accentramento del potere ed il controllo dell'informazione.

LO SCENARIO SINDACALE

Mentre il capitalismo italiano si manifesta attraverso un mercato del lavoro sempre più deregolamentato, il ricatto continuo della delocalizzazione delle produzioni in zone dove la manodopera è a più basso costo, il disinteresse assassino nei confronti della tutela della sicurezza sui posti di lavoro, la rinnovata offensiva allo Statuto dei Lavoratori, l'attacco indiscriminato alla pensione pubblica e soprattutto la diffusione delle più disparate forme di lavoro precarie e flessibili, Cgil Cisl Uil, affiancate, a seconda dei comparti lavorativi, da UGL, SNALS o altre sigle di sindacati pseudoautonomi, hanno  abbandonato  il loro compito statutario di difesa degli interessi dei lavoratori, per conservare il monopolio della rappresentanza (ottenuta in anni di fedele politica concertativi) e trasformarsi, sempre più, in centri di potere economico, mossi da logiche autoreferenziali come rispetto alla gestione dei fondi pensione.

Proprio il 7 maggio scorso è stato confermato tale progetto di cogestione burocratica con il documento approvato dalle segreterie nazionali di CGIL-CISL-UIL.

Quelle "Linee di riforma della struttura della contrattazione" che ipotizzano un nuovo modello contrattuale per il pubblico impiego ed il privato basato su un contratto nazionale debole e su di una contrattazione di secondo livello, aziendale o territoriale, che svolgerà una funzione "accrescitiva" in relazione ai seguenti parametri: produttività, qualità, redditività, efficienza, efficacia. Un modello che suggerisce una contrattazione territoriale che assomiglia molto alle gabbie salariali invocate dai leghisti; che propone di firmare le intese economiche ogni tre anni anziché ogni due (con le immaginabili ripercussioni negative per le tasche dei lavoratori) e di ridurre seccamente il numero degli attuali contratti (un sistema, quindi, per omogeneizzarli al ribasso). Che sostituisce, solo nominalmente, il concetto di "inflazione programmata" con uno completamente identico, quello di " inflazione realisticamente prevedibile", la cui valutazione non si sa bene né come e né da chi verrà effettuata e che, in sostanza, porterà sempre al solito risultato: i salari italiani continueranno ad essere tra i più bassi in Europa.

Inoltre, è importante analizzare la condizione in cui si ritrovano i sindacati genericamente "alternativi", che restano privi di padrini politici o vedono almeno incrinarsi il legame con partiti e partitini che sinora li hanno utilizzati come cinghia di trasmissione politica.

In questa fase, il sindacalismo di base, libertario ed autogestionario, con la sua piena autonomia da ogni stereotipo ed ideologismo di "partito", può assumere un ruolo strategico nell'organizzazione del conflitto sociale, dando vita a un percorso che potrebbe consentirgli di uscire da una condizione di minorità e frammentazione, per arrivare a rappresentare d'ora in poi «la vera alternativa».

SITUAZIONE SCUOLA

L'immagine che emerge, dopo l'azione devastatrice dei diversi governi succeduti negli ultimi 15 anni, è quella di un paese che ha abdicato sul tema della conoscenza, che non si interroga sul ruolo strategico della formazione in generale e della coscienza critica.

Un paese che ha deciso di piegare il sistema formativo alla logica del liberismo più sfrenato, con l'autonomia intesa come aziendalizzazione, rendendo l'istruzione una merce tra le altre e portandola, insieme alle strutture materiali dove viene quotidianamente impartita, all'estremo degrado.

Fioroni, prima di abbandonare le scene, non ha voluto essere da meno rispetto ai suoi predecessori ed ha lasciato un segnale forte del suo passaggio: sempre verrà ricordato come il ministro dell'O.M. 92 che, con notevole dose di avventurismo, ha improvvisato una procedura di recuperi-farsa per gli studenti, che ridicolizza la scuola, oltretutto senza adeguati finanziamenti, strutture ed organizzazione, lasciando poi agli istituti "autonomi" l'onere di cavarsela in qualche modo; verrà ricordato come il ministro che, applicando un provvedimento di diretta discendenza morattiana, ha imposto per l'esame di terza media l'effettuazione di una prova scritta a quiz, gestita dall'Invalsi, non per valutare le conoscenze degli studenti ma per imporre un assurdo criterio di classificazione tra scuole e tra docenti.

Oggi abbiamo di nuovo la scuola gestita dal centro-destra, con le tre i (in ordine: inglese, impresa, informatica), la meritocrazia, la chiamata diretta da parte dei Dirigenti e tutto il ciarpame che Berlusconi ha già cercato di propinarci nel suo precedente governo senza riuscirci; abbiamo un nuovo ministro, Maria Stella Gelmini (diretta emanazione della Confindustria) ed abbiamo di nuovo il MIUR (Ministero dell'Istruzione, Università e Ricerca) al posto del Ministero della Pubblica Istruzione.

Tra l'altro, proprio l'onorevole Gelmini, agli inizi del mese di febbraio, ha presentato il disegno di legge "per la promozione e l'attuazione del merito nella società, nell'economia, nella pubblica amministrazione", dove leggiamo che «Uno dei limiti principali dell'attuale sistema concerne l'assenza di procedure di valutazione dei singoli docenti e degli istituti scolastici e universitari, che consentano ai genitori ed agli studenti di scegliere i contesti formativi più efficaci ed efficienti, e che facciano crescere gli insegnanti ed i professori effettivamente meritevoli».

Inoltre il disegno prevede di dare maggiori poteri ai dirigenti scolastici, di «agevolare la concorrenza piena tra le autonomie scolastiche mediante meccanismi di ripartizione delle risorse pubbliche in proporzione ai risultati formativi rilevati da un organismo terzo, il riconoscimento alle famiglie di voucher formativi da spendere nelle scuole pubbliche o private, la detraibilità delle eventuali donazioni alle autonomie scolastiche».

Si va verso l'«eliminazione di ogni automatismo nelle progressioni retributive e di carriera degli insegnanti e la progressiva liberalizzazione della professione>> (da attuare attraverso la chiamata nominativa da parte delle autonomie scolastiche su liste di idonei, con un periodo di prova di due anni scolastici), cosa che fa il paio con <<l'adozione di un sistema di reclutamento dei docenti universitari improntato alla valutazione dei risultati».

Sarà quindi agevole per il centrodestra ripartire dalla controriforma Moratti (legge 53/2003), rimasta vergognosamente in piedi, e proseguire nel suo percorso fortemente ideologico che prevede la sostituzione della scuola pubblica con un sistema integrato pubblico-privato. L'abolizione del valore legale del titolo di studio chiuderà il cerchio, così che verrà fornita al mondo dell'impresa la possibilità di retribuire anche un laureato come se non fosse neppure diplomato.

L'incognita non è tanto cosa farà Berlusconi, quanto cosa faranno i lavoratori della scuola che, durante il governo Prodi, hanno tirato abbondantemente i remi in barca, permettendo a CGIL, CISL e UIL di condurre in porto una vicenda contrattuale vergognosa come l'ultima firmata a dicembre 2007.

L'Unicobas si è sempre battuto e continuerà a battersi per una scuola gestita dal basso, retta da organi collegiali con potere deliberante, per l'eliminazione delle gerarchie, per il coordinatore didattico eletto dal collegio docenti al posto del dirigente-manager, per una autonomia reale e non per l'autogestione di una miseria imposta dall'alto, per la piena realizzazione della democrazia sui posti di lavoro, che passa in primo luogo attraverso la possibilità di libere assemblee sindacali.

L'Unicobas si è sempre battuto e continuerà a battersi per il riconoscimento dei diritti acquisiti degli ATA ex EE.LL. (che a causa del famigerato accordo del 20 luglio 2000 sottoscritto da CGIL, CISL, UIL, SNALS con l'ARAN, sono divenuti l'espressione della più evidente ingiustizia del sistema lavorativo italiano) e per la soluzione del caso degli oltre 4000 fuori ruolo, considerati dal ministro Moratti "rami secchi" dell'amministrazione e che da allora vivono con la spada di Damocle sulla testa di un possibile spostamento intercompartimentale ed, addirittura, del licenziamento, per la risoluzione dell'annosa questione del precariato scolastico, per un giusto riconoscimento economico dell'onerosa attività lavorativa degli ATA.

Solo rivalutando il ruolo e l'autorevolezza dei lavoratori della scuola e della cultura-maestra di vita che dovrebbe esservi insegnata, si può pensare ad un inversione di tendenza. Ma per far ciò bisogna contrastare e battere la scelta della scuola azienda, per una ragione molto semplice: lo studente-cliente pretende di impegnarsi ("spendere") sempre di meno, il docente-bottegaio per quel prezzo è costretto a fornire merce sempre più scadente, il MIUR per questa merce sempre più scadente fornisce sempre meno soldi.

La scuola è un'istituzione che ha come scopo primario quello di formare il cittadino e di fornirgli una cultura adeguata e deve essere gestita in primo luogo da chi ci lavora e non da burocrati, pseudo-manager, "saggi" ed accozzaglie varie che ormai sono decenni che non mettono piede in una classe, se mai ce l'hanno messo. Non è votando per il centrodestra o il centrosinistra (che hanno ricette simili), che si risolveranno i problemi della scuola italiana, bensì potenziando ed iscrivendosi al nostro sindacato di base, l'unico che da sempre si batte per l'affermazione del "ruolo unico docente" e per l'uscita della scuola dal decreto 29/1993 che ha privatizzato il nostro rapporto di lavoro, introducendo la scuola-azienda ed in base al quale i contratti di lavoro possono al massimo recepire l'inflazione programmata, ragione per cui in 15 anni abbiamo perso il 40% del potere di acquisto dei nostri salari.

Questa è l'unica strada da percorrere se vogliamo riconquistare autorevolezza, professionalità e stipendi adeguati.

Roma, 24 maggio 2008 Esecutivo Provinciale UNIcobas Scuola di Roma