Appunti convegno

Da tempo il termine "mobbing" è invalso nell'uso comune per indicare le persecuzioni sul luogo di lavoro posti in essere da colleghi (c.d. mobbing orizzontale) e/o dal superiore gerarchico (c.d.mobbing verticale).

Seppur ad oggi non c'è stata una consacrazione del fenomeno in un testo di legge nazionale, nonostante gli innumerevoli progetti di legge presentati da diversi schieramenti politici, a dare voce alla "domanda di giustizia" è soccorsa la giurisprudenza del lavoro utilizzando studi di altre materie; in particolare la medicina e la psicologia.

In questi anni quello che, a mio parere, ha determinato una esplosione del fenomeno mobbing è il radicale cambiamento del mercato del lavoro che ha visto l'affermazione e valorizzazione del primato delle ragioni economiche rispetto alle regole destinate a disciplinare il rapporto di lavoro, prova ne è la flessibilità, che per il lavoratore è precarizzazione del posto di lavoro con la conseguenza che quest'ultimo, parte più debole del rapporto, ha acquisito una maggiore sopportazione dei soprusi e delle angherie; condizione straordinariamente fertile per la proliferazione del mobbing.

L'esplosione del fenomeno ha tuttavia generato una scorretta percezione della nozione giuridica mobbing confuso spesso con la "molestia sessuale", con la "depressione". Quello che invece caratterizza la definizione mobbing è l'intento persecutorio che si manifesta non con una molestia fisica, ma con un fastidio tutto psicologico, costituito da una serie di provocazioni piccole o piccolissime che ripetute con frequenza nel tempo rendono la vita del lavoratore impossibile pregiudicando la sua salute, la dignità e/o la professionalità .

Si tratta quindi di un insieme di condotte, alcune o tutte di per sé legittime e/o insignificanti, che tuttavia complessivamente e cumulativamente sono idonee a provocare uno sfibramento esistenziale e quindi destabilizzare l'equilibrio psico/fisico del lavoratore.

Una definizione siffatta comporta sul piano della prova all'interno del processo evidenti difficoltà. Alla tesi che addossa al lavoratore non solo l'onere di provare l'inadempimento del datore, la sussistenza del danno, il nesso di causalità tra l'inadempimento ed il danno, ma anche l'intenzionalità del danno (l'animus nocendi), si contrappone la tesi di chi aggrappandosi al tradizionale principio generale del "favor" per il lavoratore, solleva il dipendente mobbizzato dall'onere di provare l'elemento soggettivo, ritenendo che l'intento persecutorio sia presupposto dal danno, dalla lesione che deriva dall'intimidazione, dal disagio, o addirittura sostiene che nelle controversie di mobbing debbano trovare applicazione le regole probatorie valide per la tutela antidiscriminatoria in ragione del sesso, ossia le prove basate sugli elementi fattuali e presuntivi purchè precisi e concordanti, idonei a costituire il fumus della discriminazione e della persecuzione in azienda.

Le vessazioni psicologiche, possono essere compiute o in atti di contenuto tipico interno, inerente la gestione del rapporto di lavoro; penso ad esempio al demansionamento, al trasferimento, alle discriminazioni economiche o di carriera, o ancora ai controlli esasperati ed all'invio di ripetute visite domiciliari per controllo di malattia, allo storno di corrispondenza, alla sanzioni disciplinari pretestuose, ai licenziamenti illegittimi, oppure in atti atipici, quali ad esempio, il dileggio attuato dai colleghi, le aggressioni verbali consumate davanti a colleghi e/o terzi, lo svolgimento della prestazione in locali angusti ed in condizioni di isolamento della vittima dal gruppo. Al riguardo è opportuno precisare che per distinguere il mobbing dal puro e semplice conflitto dei rapporti interpersonali è necessario la sussistenza di alcuni requisiti irrinunciabili, quali la ripetitività e/o reiterazione per un arco di tempo di una certa durata delle trattamento vessatorio inflitto alla vittima.

Accanto al profilo strutturale della ripetitività delle azioni lesive, si discute se debba necessariamente considerarsi l'elemento soggettivo ossia la sussistenza del profilo finalistico, inteso a valutare la finalità illecita dei motivi vessatori.

Poiché la percezione della lesione della personalità morale varia sia da ogni lavoratore così come varia sia la volontà e l'intenzione del datore di lavoro, con conseguente difficoltà probatorie, la "finalità illecita" potrebbe essere ravvisata non attraverso la ricerca dell'intento personale del mobber, ma in base "all'idoneità lesiva dei beni della persona ed all'intrinseca ratio discriminatoria".

Una volta accertate in sede istruttoria queste condizioni rimane il problema di identificare il responsabile sul quale grava il risarcimento del danno patito dal lavoratore mobbizzato.

In assenza di una definizione legislativa, dottrina e giurisprudenza concordano sulla riconducibilità delle vessazioni in azienda, qualunque ne sia l'autore, alla violazione degli obblighi di prevenzione e protezione dei dipendenti previsto dall'art. 2087 c.c. in capo al datore di lavoro.

La Suprema Corte ripetutamente ha osservato che il contenuto dell'obbligo di cui all'art. 2087c.c. non è limitato al rispetto della legislazione tipica della prevenzione ma riguarda anche il divieto , per il datore di lavoro, di porre in essere nell'ambito aziendale comportamenti che siano lesivi dell'integrità psicofisica del dipendente.

Anche l'integrità psicofisica e morale del dipendente, infatti trova riconoscimento giuridico non solo in leggi ordinarie e speciali, ma anche in norme di rango costituzionale, quali ad esempio l'art. 32 della Costituzione che nel riconoscere l'autonomia economica privata ne impone dei limiti prevedendo che la stessa non possa svolgersi in modo da arrecare danno alla dignità umana (Cass 2/5/2000 n. 5491).

La giurisprudenza ha poi osservato come in capo al datore di lavoro gravi, al pari di ogni altro soggetto, la più ampia responsabilità extracontrattuale per cui ogni fatto doloso o colposo che comporti ad altri un danno ingiusto, obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcirne il danno.

Con la conseguenza che i comportamenti vessatori possono originare ed essere fonte sia di responsabilità contrattuale ai sensi dell'art. 2087c.c. che della concorrente responsabità aquiliana o extracontrattuale ai sensi dell'art. 2043c.c..

In ogni caso, stante la natura dell'illecito contrattuale, è a carico del datore di lavoro provare di avere adottato tutte le misure necessaria atte a tutelare l'integrità psicofisica e morale del proprio dipendente, mentre il lavoratore deve provare la lesione riportata, cioè la patologia insorta il nesso causale (tale patologia è insorta nell'espletamento della propria attività lavorativa a causa delle condizioni ambientali di lavoro).

Va sottolineato che per la giurisprudenza del lavoro è ormai principio consolidato quello che per sussistenza del nesso causale è sufficiente che l'evento consegua la causa in termini di alta probabilità (Cass. 5/10/99).

Non è quindi difficile neppure per la giurisprudenza immaginare che chiunque, se sottoposto a comportamenti vessatori e angherie di ogni genere, per molto tempo con molta probabilità finirebbe per ammalarsi.

Infine qualche cenno merita il punto più controverso della materia: danno da mobbing.

Quando il mobbing provoca una malattia vera e propria la giurisprudenza, sulla scorta di nozione di danno biologico accolto anche dalla Corte Costituzionale, ritiene configurabile un danno all'integrità psicofisica; danno cioè inteso come pregiudizio alla salute complessiva della persona e, in particolare, come danno psichico e autonomo e indipendente dal danno morale. Nei casi di malattia il giudice Guariniello ha precisato che il mobbing può costituire anche reato di lesione colposa previsto e punito dall'art. 590 c.p..

Il problema si pone quando al mobbing accertato non consegua l'insorgenza di una patologia vera e propria.

In altri termini si discute sull'ammissibilità del danno da mobbing quando questo prescinda dall'insorgenza di una patologia clinicamente apprezzabile, ma sia comunque conseguenza diretta ed immediata della lesione a della dignità umana in termini di danno esistenziale che si aggiunge al danno biologico inteso in senso stretto e quindi laddove provato e sussistente assicuri una tutela risarcitoria piena anche nelle ipotesi in cui non sia ravvisabile una vera e propria lesione alla salute.

Le categorie tradizionali dal danno biologico e del danno morale sono infatti del tutto inadeguate a dare una risposta al fenomeno del mobbing, e di ciò ne è consapevole la stessa giurisprudenza che volendo accordare una più ampia tutela si è trovata costretta a riprogettare il sistema risarcitorio del danno alla persona creando ad hoc un nuovo tipo di danno :il c.d. danno esistenziale che si aggiunge al danno biologico inteso quale danno alla salute in senso stretto. Proprio di recente la Cassazione ha riconosciuto la risarcibilità del danno esistenziale in una ipotesi nella quale non erano state concesse le ferie ed i permessi.

Questa sentenza ha distinto da un lato il danno biologico inteso in senso stretto, cioè il danno costituito da una patologia accertata attraverso precisi parametri medico legali, e dall'altro il danno esistenziale definendolo come "pregiudizio esistenziale, che pur "senza ridursi al mero patema di animo, richiama disagi e turbamenti di tipo soggettivo" idonei a compromettere le attività realizzatrici della persona umana quali la serenità famigliare e il sereno svolgimento della propria attività lavorativa. La Suprema Corte ha concluso le proprie argomentazioni sottolineando che anche il danno esistenziale, al pari di quello biologico, riceve consacrazione costituzionale all'art. 2 dove è previsto che la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabile dell'uomo ove svolge la sua personalità e all'art. 29 dove i medesimi diritti sono riconosciuti nell'ambito famigliare.

Come si vede lo sforzo compiuto dalla giurisprudenza è notevole e tutt'altro che indifferente, ma è purtroppo insufficiente.

Se infatti è innegabile l'apporto di alcuni giudici di cercare di dare ristoro a tutte le vittime del mobbing, è altrettanto innegabile che gli stessi di fatto operano, in mancanza di una legge ad hoc, nell'ambito di una legislazione che si appalesa sempre più inadeguata.

Oltretutto, e non può essere sottovalutato , i Giudici intervengono, ne potrebbe essere diversamente, quando il male è stato fatto.

In questa ottica non vi è modo di non osservare quanto sia necessaria ed urgente l'approvazione di una legge antimobbing che si badi bene non solo servirebbe a prevenire il fenomeno, ma darebbe un chiaro segnale di una politica improntata sul rispetto delle esigenze degli esseri umani.

avv. Maria Faustina Serrao