LETIZIA E IL PROFESSORE

Di Cataldo Marino

Quando un ministro della (pubblica) Istruzione appena insediatosi nomina un gruppo di lavoro per elaborare una proposta organica sull'intero sistema educativo e ne affida la presidenza ad un eminente studioso, si presuppone che con quest'ultimo condivida una visione di fondo dei problemi.

Per conoscere le reali intenzioni della signora Letizia Moratti, sono andato perciò ad indagare quale fosse il pensiero del prof. Giuseppe Bertagna.

Non nascondo che, pur partendo io da una visione laica della scuola e della società, sono rimasto favorevolmente sorpreso da "alcune" idee espresse dallo studioso, in ciò aiutato dalla delusione provata per la precedente azione del consigliere del Ministro Berlinguer, prof. Vertecchi.

Analizzando quel poco di materiale che mi è stato possibile reperire su Internet, si ritrova, è vero, un Bertagna propugnatore della scuola privata in perfetta concorrenza con la scuola pubblica, ma si scopre anche un Bertagna che su molti punti sembra aver poco a che fare con la mentalità quantificatrice propria della Moratti come, del resto, purtroppo anche dell'ex Ministro Berliguer.

Riporto qui di seguito gli stralci di un suo scritto e di due interviste, sperando che il professore, per coerenza, trovi la volontà e la forza di dissociarsi dai provvedimenti del ministro quando in essi sia chiaramente ravvisabile una impostazione diametralmente opposta alla sua.

1) Nel saggio "Scuola e organizzazione" (www.sced.it/pdgen/genpag0.htm) è possibile leggere qualcosa che dovrebbe mettere in subitanea crisi tanto l'insipiente Berlinguer quanto la manager Letizia:

"Un'attività come quella dell'insegnamento che ha sempre mal sopportato la quantificazione del lavoro, proprio perché intellettuale e qualitativa, è (oggi) sottoposta ad un'operazione di scomposizione dei carichi di lavoro e di misurazione oraria delle mansioni che produce addirittura incentivi economici (il cottimo contro cui hanno lottato almeno quattro generazioni di operai). Da parte di qualcuno, si è giunti perfino alla vertigine di proporre differenziazioni salariali collegate al grado di apprendimento degli alunni, stabilito attraverso test e prove oggettive, come se il rapporto apprendimento-insegnamento fosse paragonabile a quello esistente tra processo e prodotto meccanico.

Inoltre, sul piano delle prestazioni professionali, una realtà nella quale, per tradizione, i ruoli sono sempre stati intercambiabili e reciprocamente integrati, si sta, invece, a poco a poco irrigidendo. Non solo si tende alla separazione quasi impermeabile tra le carriere dirigenti, amministrative e docenti, ma all'interno della stessa carriera di docente si desidera introdurre differenziazioni tra ruoli di gestione e di educazione/istruzione che, alla fine, si riveleranno irreversibili. Accanto al docente che insegna, abbiamo così visto la nascita di quello che orienta, che gestisce il Pof, che realizza i progetti formativi d'intesa con enti e istituzioni esterne, che è delegato ai servizi per gli studenti, che è incaricato di sostenere il lavoro dei colleghi, che organizza i servizi di documentazione o la biblioteca ecc.: ma è possibile «insegnare» senza essere in grado, almeno in parte, di impiegare, quando e per quanto servono, in maniera integrata, queste diverse competenze al servizio di tutti i colleghi e, soprattutto, al servizio di un apprendimento significativo da parte degli allievi?

In realtà, queste proposte sono anacronistiche. Giungono quando ormai sono in via di superamento nello stesso modello organizzativo aziendale che le ha viste nascere. Se non creano ordine e armonia nelle aziende postfordiste, tanto meno si può presumere che riescano a farlo in una scuola… I problemi non seguono la logica dei ministeri: divisibili per direzioni generali e dipartimenti. Sono sempre trasversali. Li vince, perciò la flessibilità, non la rigidità delle funzioni; la capacità di affrontare l'imprevisto anche con strumenti tecnici originali, inventati all'impronta, non l'abilità di applicare regole e repertori prestabiliti; la disponibilità libera e reale di confrontarsi con gli altri, non l'obbligo formale di collaborazioni di gruppo; il desiderio di variazione, non di uniformità e di omologazione; l'assunzione di responsabilità, non il loro scarico o la loro comoda delega a 'persone competenti'; la maturazione umana complessiva, non l'esasperazione di una sua componente particolare. Responsabilità, libertà, senso estetico, ricchezza relazionale, equilibrio emotivo, creatività, consapevolezza dei propri limiti, ma insieme coraggio, prudenza, saggezza: sono tutti elementi decisivi per la scuola, elementi che, però, si sottraggono tutti alla rigidità dei mansionari e della divisione delle competenze".

2) In una intervista (www.gildains/cs/CICLI/20001120Bertagna.htm) il prof. Bertagna ribadisce questi concetti in modo ancora più netto e categorico:

"Non si è bravi docenti perché si sta a scuola 30 o 36 ore, firmando il cartellino o quante altre carte si voglia: lo si è, se si è scelti dagli allievi e se si è capaci di instaurare con loro i rapporti educativi necessari per il tempo necessario. Altro che mansionari e funzioni-obiettivo! Dobbiamo mirare ad una scuola nella quale torni ad essere importante non progettare l'educazione sulla carta, ma praticarla, facendo provare la gioia dell'apprendimento agli allievi; non incontrare tecnici di qualche moda didattica più o meno lunare, ma veri 'maestri' e mentori della crescita. È ovvio che persone del genere vadano pagate e premiate, non lasciate a stipendi di sopravvivenza. E che vadano formate e riqualificate come si deve".

3) Il 21 aprile 1998 Giuseppe Bertagna afferma in una trasmissione della RAI (www.emsf.rai.it/grillo/trasmissioni.asp?d=223) qualcosa della quale non potrà non discutere con la Signora Moratti in relazione all'articolo 13 della legge finanziaria per il 2002:

"Sul fatto che l'orario di servizio dei docenti sia considerato un partime io mi sono sempre stupito e meravigliato, perché non è partime per legge, è partime di fatto, perché Giovanni Gentile, quando disse, nel 1923, che bisognava avere diciotto ore di insegnamento, non pensava che l'insegnante dovesse lavorare diciotto ore, pensava che le altre diciotto ore le dedicasse alla scuola, allo studio e all'aggiornamento. Ed è per questo che ai professori universitari dava l'incarico di insegnare tre ore, perché le altre trentatré ore, per giungere alle trentasei dell'orario di servizio degli impiegati dello Stato, le dedicassero allo studio".