Il problema della spesa previdenziale occupa
le pagine dei giornali pressoché ogni giorno. Persino Bill Gates
in visita in Italia ha sentito il bisogno di offrire i propri buoni consigli
per affrontare un futuro a dire di tutti pericoloso ed insostenibile. In
prossimità della tornata elettorale le fonti di governo tacciono
sull’argomento, lasciando il compito di lanciare l’allarme pensioni agli
organismi di regolazione economica internazionale. Appena il 14 marzo il
Presidente della Commissione della UE, Romano Prodi, ha sollevato il problema
del debito e della sua riduzione per garantire un trattamento previdenziale
dignitoso alle future generazioni, per evitare l’iniquità intergenerazionale,
in soldoni la povertà per figli e nipoti (Il Sole 24 ore,
15 marzo 2001, pp. 1-2). È da ritenere che chiunque vinca le prossimi
elezioni si avvii ad effettuare un altro pesante ritocco al sistema previdenziale
del paese; pesante ritocco che, è bene ricordare, è tutt’altro
che il primo. In meno di un decennio la previdenza italiana è stata
smantellata e aspetta ora il colpo di grazia. Ripercorriamo le tappe di
questo assalto, valutiamo le motivazioni che lo giustificano ufficialmente,
analizziamo le prospettive realistiche che si aprono a breve termine e
tentiamo di capire i fini reali di tutta la manovra.
Il primo pesante colpo al sistema previdenziale
fu quello inferto dal Governo Amato, sull’onda dell’imperativo del riequilibrio
di conti pubblici. L’Italia, o meglio i lavoratori dipendenti italiani,
sono quelli che hanno pagato il più grosso contributo al riequilibrio
dei conti pubblici per ottemperare ai parametri di convergenza verso la
UE definiti a Maastricht. Di per sé la riforma Amato cambiò
poco del sistema previdenziale: limitò le uscite anticipate di cui
ancora in parte usufruiva il pubblico impiego, bloccò i pensionamenti
differendoli di qualche anno (in misura variabile a seconda dell’anzianità
contributiva maturata) e poco più. I conti pubblici trassero un
qualche discutibile beneficio (che il grosso del risparmio si esercitò
su altre voci, andando a costituire la manovra finanziaria più consistente
mai fino allora avanzata, anche se Prodi successivamente doveva battere
quel record); ma era soprattutto un principio politico che veniva affermato:
non vi erano più diritti acquisiti, le regole del gioco potevano
venir cambiate unilateralmente nello spazio di una nottata. Un principio
questo che allora fece scandalo, ma che il tempo avrebbe reso sempre meno
ruvido al palato: d’altronde le OO.SS., già schiave della logica
delle compatibilità e convinte (e attive propagandiste della convinzione
medesima) della necessità inderogabile di sacrifici necessari a
farci entrare in Europa, accettarono, avallarono e difesero l’operazione:
si era già nella logica degli accordi sul costo del lavoro varati
sotto il solleone.
La vera riforma delle pensioni venne qualche
anno dopo sotto gli auspici di Lamberto Dini, prima quale Ministro del
Tesoro del Governo Berlusconi, poi quale Presidente del Consiglio. Nell’autunno
del 1994 Berlusconi propose una drastica revisione del sistema previdenziale,
suscitando una fiera protesta sindacale: un milione di persone si recò
nel novembre a Roma per un’imponente manifestazione di protesta. I confederali
ottennero ciò che volevano: sedere al tavolo delle trattative e
firmarono nel dicembre un accordo che si scostava molto poco dalle originarie
proposte governative; al Governo sedeva ancora per pochi giorni Silvio
Berlusconi, che lasciò l’accordo in eredità al suo successore.
Dini, che aveva concepito la riforma si ritrovò così anche
a gestirla in prima persona. La riforma fu varata nel 1995 (L. 335/95)
e cominciò a sortire i suoi effetti nell’anno successivo. La revisione
questa volta era profonda, ma differita nel tempo: i risparmi sarebbero
diventati consistenti solo dopo venti anni; nel frattempo i vincoli posti
ai pensionamenti e le penalizzazioni previste tendevano a limitare ed arginare
la fuoriuscita dei lavoratori verso lo stato di quiescenza, abbassando
gli oneri dell’INPS. Al di là di questi disincentivi al pensionamento,
per i lavoratori già con alle spalle molti anni di contributi, la
vera novità era il cambiamento del metodo i calcolo della pensione.
Il cambiamento non riguardava tutti, ma solo coloro che avevano maturato
alla data del 31 dicembre 1995 meno di 18 anni di lavoro: per essi la parte
pregressa veniva computata col vecchio metodo retributivo, mentre
gli anni di lavoro a venire veniva valutati col metodo contributivo,
e lo stesso metodo contributivo si applicava integralmente per l’intero
calcolo della pensione per coloro che non avevano maturato otto anni di
contributi alla stessa data. Rinviando l’analisi sui due diversi metodo
di calcolo, si può dire all’ingrosso che il secondo garantisce un
trattamento di quiescenza molto inferiore al primo e quindi rende necessario
il ricorso ad integrazioni per garantirsi un livello dignitoso di sopravvivenza
in vecchiaia: le integrazioni sono da reperire sul mercato nella varie
forme di pensioni integrative e di assicurazioni. La riforma pertanto agiva
nel profondo del sistema di sicurezza sociale e tendeva ad indurre comportamenti
molto diversi a quelli cui i lavoratori dipendenti da sempre erano stati
abituati, e questo soprattutto nelle nuove generazioni che venivano catapultate
nel nuovo sistema. La frattura generazionale, accettata dai sindacati (forse
col proposito di sanarla al ribasso in seguito), favoriva l’approvazione
della riforma da parte dei lavoratori: chi non aveva nulla da perdere,
coloro già collocati in pensione, venivano indotti a ratificarla
per salvare l’economia del paese, e se non tutti cadevano nel tranello
il solito addomesticamento dei dati elettorali garantiva il successo dell’operazione
L’attacco sferrato era mortale, ma agiva
come una malattia lenta che avrebbe nel tempo distrutto il sistema previdenziale.
I conti negli anni successivi non uscivano dalla linea prevista dalla riforma
e l’accordo era che si sarebbe fatta una verifica dopo tre anni. Ma l’obiettivo
non dichiarato doveva essere raggiunto più in fretta e quasi subito
partiva una nuova campagna per ritoccare il sistema. Le OO.SS. prima si
dicevano indisponibli ad una discussione antecedente alla scadenza dei
tre anni, poi pressate dal Governo di centro-sinistra sedevano al tavolo
della trattativa e siglavano un nuovo ritocco. Piccolo, ma che chiudeva
pressoché definitivamente le poche finestre di uscita anticipata
rimaste in vigore. Anche questo era un palliativo e quasi subito ripartiva
la propaganda sulla presunta insostenibilità del sistema previdenziale
e nasceva la favola della gobba (vedi sotto). È questa la
fase in cui viviamo e in cui ormai sembra imminente una nuova revisione
del sistema pensionistico, revisione che, vedremo, ha tutta l’aria di essere
radicale e forse definitiva. È un problema del prossimo Governo,
quello che uscirà dalle elezioni del 13 maggio, ma è facile
prevedere che le scelte che verranno operate saranno indifferenti al dato
elettorale: il percorso della previdenza italiana è già segnato
in tutti gli aspetti essenziali. Solo alcuni piccoli particolari sfuggono
al quadro e costituiranno i margini di manovra della futura trattativa.
La spesa per lo stato sociale in Italia
è la più bassa tra i paesi del G8. Vediamo i raffronti relativi
al 1996 con gli altri paesi europei (Tab. 1).
Belgio
|
Danimarca
|
Germania
|
Spagna
|
Francia
|
Italia
|
Paese Bassi
|
Portogallo |
|
1990
|
26,8
|
30,3
|
25,4
|
20,4
|
27,7
|
24,1
|
32.5
|
15,5
|
1993
|
29
|
33,3
|
29,1
|
24,4
|
26
|
26
|
33,7
|
21
|
1996
|
30
|
33,6
|
30,5
|
22,4
|
30,9
|
24,8
|
30,9
|
21,6
|
Fonte: Il Sole 24 ore, 8 gennaio 2000, p. 7
Resterebbero quindi ampi margini per aumenti
consistenti nell’erogazione dei servizi, senza per questo dover comprimere
la spesa pensionistica.
Si sostiene che la spesa previdenziale italiana e fuori linea nei confronti di quella degli altri paesi, ma prima di tutto essa comprende voci assistenziali che non dovrebbe comprendere ed inoltre i contributi che vengono versati sono superiori a quelli di qualsiasi altro paese. Negli Stati Uniti il contributo pensionastico complessivo rappresenta il 12% del salario,.In generale, secondo dati de Il Sole 24 ore del giorno 8 gennaio 2000, p. 7, in Italia si versa il 29,6%, contro il 28,3 della Spagna, il 22,8 dell’Austria, il 19,8 della Svezia e della Francia, il 18,6 della Germania, il 17,9 della Finlandia, il 16,4 del Belgio, il 14,5 dei Paesi Bassi, il 13,9 della Gran Bretagna e del Portogallo, e l’1,0 della Danimarca. Ma vediamola la spesa in rapporto al PIL nel 2000 (Tab. 2)
.
Tab. 2. La spesa pensionistica
Belgio
|
Germania
|
Spagna
|
Francia
|
Irlanda
|
Italia
|
Olanda
|
Austria
|
Portogallo
|
Regno
Unito
|
9,3
|
10,3
|
9,4
|
12,1
|
4,6
|
14,2
|
7,9
|
14,5
|
9,8
|
5,1
|
Fonte: Il Sole 24 ore, 3 marzo 2001, p. 6
Ma,
come sempre, i dati vanno interpretati e analizzati. Nel 1996 su di un’incidenza
del 13,97% sul PIL del sistema previdenziale almeno il 3,08% (poco meno
di un quarto del totale) era destinato ad attività assistenziali
(fiscalizzazione oneri sociali, cassa integrazione, pensioni sociali, invalidità,
integrazioni al minimo, etc.), che dovrebbero gravare sulla fiscalità
generale. Questo semplice scorporo ci allinea agli altri paesi europei.
Nel 1995 l’evasione contributiva delle aziende era valutata sui 40 mila
miliardi, pari al 16% circa del bilancio INPS; il suo recupero, anche parziale,
riequilibrerebbe il bilancio dell’Istituto. Inoltre la spesa non solo procede
all’interno delle previsioni presenti all’atto del varo della riforma Dini,
ma resta addirittura al di sotto di quest’ultime. Nel triennio 1996-1998
complessivamente sono state erogate meno pensioni di quelle previste. Nel
1999 il numero è ulteriormente calato dello 0,8% rispetto all’anno
precedente (Il Sole 24 ore, 7 giugno 2000, p. 8). Gli accessi al
sistema pensionistico procedono infatti più lentamente del previsto,
in particolare nel pubblico impiego, un tempo pietra dello scandalo (ibidem).
Il risparmio vero, comunque, dovrebbe avere inizio tra circa 15 anni.
Il sistema di calcolo retributivo è
agonizzante. Si è detto che non sarebbe più stato sostenibile
per l’aumento della popolazione in quiescenza nei confronti i quella in
attività, ma una semplice analisi di come funziona svela l’inconsistenza
dell’argomento. Il sistema retributivo, infatti, è, come suol dirsi,
un sistema a ripartizione, quindi per sua natura fortemente solidaristico
nei rapporti generazionali. In altri termini la pensione viene pagata in
base agli anni maturati, indipendentemente dai contributi versati: il punto
di riferimento è la retribuzione. Il sistema è in equilibrio
quando i contributi che i lavoratori in attività versano sono almeno
pari alla spesa previdenziale. La formula dell’equilibrio minimo è
la seguente:
dove P è la spesa pensionistica, a è l’aliquota contributiva, r la retribuzione media dei lavoratori e N il loro numero. Per stabilire quindi che il sistema sta per andare in fase di squilibrio bisogna fare ipotesi precise, non solo sull’ammontare della popolazione in quiescenza e sulla pensione media, ma anche sul monte salari (prodotto di occupazione e retribuzione); e questo senza modificare l’aliquota. Ogni calcolo quindi, per denunciare il fallimento del sistema, deve fare ipotesi restrittive o sull’occupazione future, oppure sulla retribuzione media prevista.
Il contributivo omologa il sistema previdenziale
pubblico a qualsiasi altro fondo pensione. Infatti il trattamento previdenziale
viene calcolato in base al rendimento dei contributi che il lavoratore
ha versato nell’arco della sua vita lavorativa. Il sistema quindi non ha
alcuna differenza di impostazione nei confronti di un qualsiasi investimento
o forma assicurativa, se non nel fatto che una parte dei contributi sono
a carico del datore di lavoro. L’esiguità dei rendimenti rende necessario
il ricorso a forme integrative (vedi sotto).
Nonostante sia acclarato che la spesa previdenziale in questi ultimi anni sia in discesa,e nonostante il grosso del risparmio previsto dalla riforma del 1995 debba ancora realizzarsi e cioè al momento che cominceranno ad andare in pensione i lavoratori che si vedranno calcolare il trattamento previdenziale col metodo contributivo, ossessivamente viene ripresentato il problema della gobba della spesa. Si tratta di un previsto aumento della spesa previdenziale nel futuro non troppo lontano. Ma quando? La data non è precisa: per esempio prima si è parlato del 2045; Il sole 24 ore del 9 settembre 1999, p. 3 la situava tra il 2040 e il 2035; lo stesso giornale del 13 gennaio 2000, p. 6 invece la collocava nel 2035. Quest’oscillazione non sorprende, come non sorprende quella sull’entità: nei due casi citati era nel primo il 15,1% del PIL ed intervallo di valori tra il 14% ed il 16,5% nel secondo. Non sorprende perché non vi può essere calcolo aleatorio: occorre fare ipotesi sul tasso di crescita del PIL, sull’andamento delle retribuzioni medie, sui livelli occupazionali, sui tassi di natalità dei prossimi quindici anni, sulla vita media; tenendo invece fisse le età pensionabili, le aliquote contributive, i rendimenti da capitale, la normativa, l’obbligo scolastico, etc. Ogni piccola variazione di uno di questi dati, comporta oscillazioni, anche notevoli, delle previsioni da qui a trentacinque anni, è ovvio. Eppure lo spettro della gobba si aggira tra di noi, come la più scientifica ed incontrovertibile delle previsioni.
Tab. 3 Popolazione oltre i 65 anni in % di quella in età lavorativa
2000
|
2010
|
2030
|
|
Austria
|
21,5
|
24,0
|
33,3
|
Belgio
|
25,2
|
26,0
|
37,3
|
Danimarca
|
22,7
|
25,8
|
34,9
|
Finlandia
|
22,2
|
25,4
|
40,5
|
Francia
|
24,4
|
25,3
|
35,2
|
Germania
|
24,0
|
29,6
|
37,0
|
Grecia
|
26,7
|
30,3
|
38,5
|
Irlanda
|
16,8
|
18,2
|
26,1
|
Italia
|
26,9
|
41,4
|
41,8
|
Lussemburgo
|
21,3
|
23,3
|
32,7
|
Olanda
|
20,3
|
23,0
|
36,8
|
Portogallo
|
23,2
|
25,2
|
32,2
|
Regno Unito
|
24,6
|
25,9
|
34,2
|
Spagna
|
24,9
|
27,0
|
36,0
|
Svezia
|
27,1
|
29,7
|
40,3
|
Uno dei problemi più dirompenti
ai fini delle previsioni dell’andamento della spesa previdenziale è
la determinazione della percentuale della popolazione in quiescenza (oltre
i 65 anni) in relazione a quella in età attiva (tra i 15 ed i 65
anni). È evidente che si tratta di previsioni di per sé molto
aleatorie, ma che i dati oscillino a distanza di poco tempo nelle stesse
fonti, indica qualcosa di diverso da semplice incuria. La realtà
è che si cerca da parte padronale di accediate l’opinione che il
nostro è un paese senescente quanti altri mai e che quindi l’intervento
per evitare il baratro dell’insolvibilità sia decisamente necessario.
Così Il Sole 24 ore del 25 febbraio 2000 a p. 24 pubblicava
una tabella (Tab. 3) da cui si evinceva come l’Italia fosse il paese a
più alto rischio anziani (41,8% nel 2030). Ma meno di cinque mesi
prime lo stesso giornale (Il Sole 24 ore, 29 ottobre 1999, p. 4)
aveva pubblicato uno studio dell’agenzia Merrill Lynch con dati del tutto
diversi (2000 22,7%, 2010 23,9%, 2020 31,7% e 2030
38,3%): uno scarto del 3,5% non è certo trascurabile; ma
se si vanno a guardare le ipotesi su cui si fonda lo studio (andamento
della natalità e relative proiezioni sulla consistenza delle popolazione
attiva) ci si rende subito conto che in realtà si sta solo dando
i numeri.
La torta da spartire è (o almeno sembra essere enorme). Il vero scopo di tutta l’operazione che si avvia a compire il decennio è immettere nel mercato finanziario una nuova consistente fetta dei risparmi dei lavoratori, investiti per assicurarsi un futuro dignitoso che la previdenza pubblica non garantisce più. In alternativa ai Fondi gestiti dai privati (aperti) nascono Fondi Pensioni che originano da un accordo tra le parti sociali (negoziali), in cui i sindacati hanno un peso rilevante, sia all’atto dell’istituzione, sia, e maggiormente, all’avvio della gestione ordinaria. Per avere un’idea i nuovi fondi censiti a fine dicembre scorso erano 142, di cui 43 negoziali (dieci in più dell’anno precedente) (Il Sole 24 ore, 15 marzo 2001, p. 18). Ma ancora i risultati non sono quelli sperati. Solo il 30% della platea potenziale ha finora aderito (aspettate che i lavoratori capiscano di non avere alternativa alla previdenza integrativa, e lo capiranno presto!); ma soprattutto è il versante delle quote a carico delle aziende e dei lavoratori effettivamente versate che preoccupa: siamo nell’ordine del 2%, salvo il fatto che per i giovani la quota è più alta, intorno al 6%, lamenta Paolo Onofri, l’ispiratore della manovra (ibidem). Si cerca quindi di favorire con la leva del fisco i fondi pensione: è prevista, infatti, la deducibilità degli importi versati nei fondi integrativi all’interno di determinati massimali; sono previste agevolazioni per i lavoratori che verseranno oltre la metà del Tfr (vedi sotto); i redditi derivanti dal fondo saranno tassati all’11%; i contributi volontari saranno detraibili al 19%; i sindacati chiedono di ridurre anche l’aliquota fiscale sui rendimenti dall’11% al 6% (Il Sole 24 ore, 18 giugno 2000, p. 4). In relazione a quest’ultima richiesta, il Governo Amato sul filo di lana il 15 marzo non ha accolto la richiesta sindacale della riduzione dell’aliquota, ma ha dichiarato detraibili solo i contributi versati ai fondi negoziali, anche se non provenienti dal Tfr per mancanza di un accordo operativo. D’altra parte, si dice, il nostro è il paese dove meno si ricorre ai fondi pensione; per la verità le cifre sono queste: dei 13 mila miliardi di $ investiti in tutto il mondo nel 1999 nei fondi pensione il 56,9% si investono negli USA, l’11,9% in Giappone, il 10,5% in Gran Bretagna, il 2,7% in Canada, l’1,1% in Germania, lo 0,5% in Francia e in Italia, lo 0,1 % in Spagna ed il residuo 12,9% nel resto del mondo. Come si vede siamo significativamente in compagnia di quei paesi dove il sistema previdenziale pubblico ha sinora funzionato, mentre quello che si tende a rincorre è il modello americano.
Ridurre i contributi a carico del lavoro
(perché, si dice, se i datori di lavoro versassero meno contributi
sul salario, quello netto nella busta paga dei dipendenti aumenterebbe
sensibilmente; garantire una pensione decorosa a tutti; consentire un guadagno
di gestione ai fondi pensione (maggiore se aperti o privati). Come si tengono
insieme questi aspetti contraddittori. È presto detto: si riforma
il trattamento di fine rapporto, mettendolo virtualmente in busta paga
e versandolo in realtà come contributi ai fondi pensione. La ricetta
appare miracolosa: ad oggi il Tfr rende ai lavoratori meno dell’inflazione
programmata, mentre un’oculata gestione dei fondi pensioni garantirebbe
rendimenti di gran lunga più consistenti. la nascita dei fondi pensioni
negoziale si accompagna quindi, sempre con una revisione delle modalità
di erogazione del Tfr o dell’indennità di buonuscita, che su base
volontaria viene trasferito al fondo stesso.La verità è,
come sempre, ben diversa. I lavoratori investono ora (compresa la parte
che versano i datori di lavoro, che comunque costituivano salario differito)
i soldi che avrebbero riscosso a suo tempo all’atto della fuoriuscita dal
sistema produttivo, ed in cambio di questa mancata riscossione godranno
di una pensione sui livelli di quella che gli era garantita prima di questa
farsa. Tutto ciò, ovviamente, se la gestione sarà veramente
oculata, se le spese di gestione per i fondi negoziali ed il profitto per
quelli aperti non graveranno più del previsto sui rendimenti, se
il sistema finanziario sarà in grado di garantire un margine consistente
sugli investimenti, etc. etc. Come si vede è tutto molto aleatorio,
in particolare ora, quando la fiducia in un mercato finanziario in perenne
rialzo si è spenta; ma proprio adesso i fondi pensione tornano alla
ribalta, quando una borsa asfittica o in recessione chiede l’immissione
di nuovi capitali freschi per sopravvivere.
Viste le premesse e la determinazione mostrata da chi vuol rimettere le mani sul sistema pensionistico c’è poco da stare allegri. Si può essere certi che questa volta le misure saranno drastiche e quasi definitive. Le direttrici di interevento saranno essenzialmente tre:
Abolizione delle pensioni di anzianità (35 anni di contributi) per lasciare solo quelle di vecchiaia, cioè legate all’anzianità anagrafica; resteranno, ad ogni buon conto, le pensioni per aver raggiunto massimo contributivo (40 anni);
Transizione di tutti i dipendenti al metodo contributivo con l’applicazione del pro rata: la parte maturata col retributivo verrà mantenuta, mentre la nuova anzianità maturata verrà calcolata col metodo contributivo; così verrà sanata la cesura generazionale creata dalla riforma del 1995.
Nel frattempo già si levano voci (Blair e tanti echi anche in Italia) favorevoli ad un innalzamento dell’età pensionabile oltre i 65 anni; per il momento, ancora solo nella forma volontaria di prosecuzione della prestazione lavorativa. Ovviamente per smorzare la noia degli anziani e farli sentire utili alla società (per azioni)!